Teatro Patologico

 Teatro Patologico

Il mondo in cui la fragilità non ostacola gli eroi

Chiudete gli occhi ed immaginate, almeno per un istante, di essere stretti tra le cinture di una camicia di forza. Al solo pensiero manca già l’aria per la condizione di limite, di soffocamento che percepite. Quanto ossigeno può donare, invece, la libertà (non solo fisica) delle anime fragili?  

Dario D’Ambrosi, uno degli artisti d’avanguardia italiani più conosciuti al mondo, quarant’anni fa ha provato ad immedesimarsi nel ruolo di ‘matto’. Da quell’esperienza plasma uno dei volti puri del teatro dove le maschere lasciano spazio all’unicità degli attori. Un teatro sospeso nel tempo e legato solo ad una parola: inclusione. Un modo concreto ed empatico per liberare dalle catene dei pregiudizi e delle disuguaglianze uomini e donne di ogni età.

Ecco il Teatro Patologico. Un balsamo per le anime fragili che getta le sue basi nel 1979 momento storico in cui trova terreno fertile la legge Basaglia ( n°180 del 13 maggio 1978) che sancì la chiusura dei manicomi e la regolamentazione dei Tso. D’Ambrosi ‘sconta’ sulla sua pelle tre lunghi mesi di ricovero all’interno dell’Istituto psichiatrico ‘Paolo Pini’ di Milano per studiare il comportamento dei pazienti. Da quell’esperienza trasse ispirazione per la realizzazione del suo monologo ‘Tutti non ci sono’ con il quale esordisce a New York grazie a Ellen Steward, fondatrice del Caffè La Mama. Siamo alla fine degli anni ’70 e il Caffè La Mama rappresenta il laboratorio artistico all’avanguardia per eccellenza, è il punto d’incontro di artisti quali Robert De Niro, Andy Wharol, Lou Reed, Pina Baush e tanti altri. Dario D’Ambrosi continua a frequentare assiduamente il teatro, diventandone membro, proponendo vari spettacoli e dirigendo nell’ 89 il festival di teatro ‘L’altra Italia’.

Ha collaborato con grandi attori e registi internazionali  (del calibro di Anthony Hopkins e Mel Gibson solo per fare qualche esempio) e la sua è davvero una carriera immensa.

Dal 2016, fonda il Primo Corso Universitario al Mondo di ‘Teatro Integrato dell’Emozione’ in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” con il Dipartimento di Psichiatria diretto dal Prof. Alberto Siracusano, un percorso di studi interamente rivolto a persone con disabilità fisica e psichica. Un progetto grazie al quale sarà insignito di numerosi riconoscimenti anche di respiro mondiale.

Dario, perché definisci patologico il tuo teatro?  

“Fu un giornalista a coniare questo termine e lo fece alla prima del mio ‘Tutti non ci sono’, l’opera nata dopo la mia esperienza in manicomio. Una definizione direi perfetta che accompagna da quarant’anni il mio modo di recitare e di lavorare con le persone ‘fragili’. ‘Tutti non ci sono’ ha dimostrato quanto sia labile il confine tra pazzia e normalità, accendendo i riflettori sul concetto stesso di pazzia al di là dei comuni preconcetti. I nostri spettacoli tendono ad indagare la follia, quella vera dei malati, al fine di ridare ‘dignità al matto’. Il teatro Patologico è un gancio invisibile di speranza che unisce l’arte della recitazione e la malattia mentale in un unico percorso”.

Hai colto subito il valore positivo di questo termine.

“Assolutamente sì, in apparenza il mondo patologico sembra essere un contenitore di insidie e negatività. Soffermarsi solo sulle ombre, però, è ingiusto. Può esserci tanta luce nella vulnerabilità altrui. In tutti questi anni ho avuto in terapia oltre 1700 ragazzi (tra i 18 e i 60 anni) con disabilità psichiche o fisiche di ogni livello o con storie davvero dure alle spalle. Sono state certamente tante le difficoltà ma grazie alla loro energia ho scoperto un mondo pieno di meraviglie. Siamo una bella squadra, poi, al mio fianco ci sono ottimi docenti e professionisti che riescono a lavorare in completa sinergia con i ragazzi”.

L’emergenza Covid ha ostacolato il percorso terapeutico di questi ragazzi?

“Purtroppo sì. Le distanze dettate dall’emergenza sanitaria hanno spinto nella solitudine i miei ragazzi. Quando sono rientrati è stata davvero dura ricominciare e rimettere in campo il percorso di riabilitazione e di gestione delle emozioni”.

Il teatro non è la tua unica passione, giusto?

“Il mio primo amore è il calcio. Ho giocato quattro anni nel Milan e, confesso, nemmeno il tempo e i nuovi impegni hanno sbiadito questa mia grande passione. Se avessi la possibilità di incontrare per strada dei ragazzi e fare qualche tiro a pallone lo farei senza esitare”.

Dario con ragazzi spettacolo

Cosa ti insegnano ‘i tuoi ragazzi’ nel quotidiano? 

“Nonostante le loro schizofrenie o disabilità gravi con le quali sono costretti a convivere, questi ragazzi danno sempre il doppio dell’amore che ricevono. E questa è una cosa bellissima”..

Vuoi raccontarci una storia che ben rappresenta la forza del teatro?

“C’è la storia di un giovane, 30 anni, che si autolesionava. Questa sua violenza spaventava molto il gruppo così la mamma decise di non farlo venire più a teatro. Per questa scelta la notte stessa non chiusi occhio. Pensavo: se questo ragazzo abbandona il corso è una sconfitta per tutto il teatro. Non posso lasciarlo andar via. La mattina seguente parlai con la mamma e le proposi di partecipare al corso di teatroterapia: doveva solo accompagnare il figlio, sostenerlo in questo percorso di riabilitazione. Alla fine non puoi immaginare che carica pazzesca ha avuto quel ragazzo e quante soddisfazioni ha dato al gruppo. Aveva anche smesso di auto-danneggiarsi”.

Cosa ti ha insegnato il Teatro Patologico?

“A stare in scena non in modo classico ed accademico come fanno tanti attori ma, di avere una libertà d’espressione, un’energia travolgente come quella racchiusa nell’animo, unico nel suo valore artistico, di questi ragazzi davvero straordinari”.

Tra i tanti spettacoli messi in scena, la Medea vi lega in modo particolare a David Sassoli. 

“David oltre ad essere stato un grande politico ed ottimo presidente del Parlamento Europeo era un grande ammiratore del Teatro Patologico. Pensa che ha voluto che andassimo a Bruxelles, il 2 aprile scorso nella Giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo, a rappresentare la Medea. Era orgoglioso dei miei ragazzi, erano un pezzo del suo cuore. Il 21 gennaio scorso abbiamo dedicato una serata al nostro amico David, un piccolo gesto per far capire che non lo dimenticheremo mai”.

Cosa si può fare per questi ragazzi?

“Serve più attenzione, un aiuto concreto. Come dico in tutti i convegni a cui partecipo in giro per il mondo, quando sta bene un ragazzo stanno bene migliaia di persone, a partire dalle loro famiglie. E’ da qui che inizia la rivoluzione del benessere sociale”.

La vostra compagnia prosegue la sua corsa in Italia e in giro per il mondo, ovviamente emergenza Covid permettendo

“Sì,oltre che in Italia saremo in tournée, se la pandemia frenerà la sua corsa, anche all’estero (Los Angeles, Il Cairo, New York solo per citarne alcune). 

Attualmente la compagnia è composta da quanti ragazzi?

“La compagnia è composta da venti attori ma abbiamo in cura sessanta ragazzi”.

Domenico Iannacone ha raccontato attraverso una puntata speciale di ‘Che ci faccio qui’ la storia del tuo teatro con la coinvolgente rappresentazione dell’Odissea della tua compagnia. L’incontro con Domenico ti ha segnato positivamente.

“Devo ringraziare Domenico perché se c’è una continuità di questo teatro nel mondo è proprio grazie a lui, alla sua professionalità intrecciata alla grande umanità racchiusa nel suo modo di fare giornalismo. L’Odissea è stato un grande momento per noi. Una libera rivisitazione del celebre poema omerico in cui emergono con forza i temi del disagio, dell’emarginazione, dell’integrazione.

I volti della nostra compagnia sono la vera forza degli spettacoli che mettiamo in scena. Ognuno di loro porta sulla propria pelle il segno di un dolore o una fragilità (depressione, autismo, ritardi cognitivi). Ognuno di loro, però, è straordinario nel recitare e nell’approcciarsi alla vita sul palcoscenico”.

Sei mai stato in Irpinia?

“Purtroppo no. Ma sono certo che anche l’Irpinia accoglierebbe con un caloroso abbraccio questi ragazzi. Ora stiamo portando in giro per l’Italia La Medea speriamo di poter  al più presto far tappa anche nella vostra terra e far capire quanta bravura possiedono questi ragazzi straordinari”.

Un consiglio ai genitori che convivono con situazioni di disabilità o patologie gravi

“Di essere semplicemente orgogliosi di avere un figlio con problematiche perché possiede qualcosa in più dei ragazzi normodotati. La disabilità è forza, non è un momento di vergogna o disprezzo. La disabilità è un’arma in più per far alzare la testa e guardare negli occhi a chi ci viene incontro in un mondo sempre più distante dall’umanità e dai suoi valori pulsanti”.

Quarantotto pagine, patinate e a colori. Un sito agile ed intuitivo. Free-press bimestrale e giornale online, per un'Irpinia come non l’avete mai vista. Che siate irpini, oppure no