Melito Irpino, il paese dell’eterna giovinezza

di Edy De Michele
La sua genesi è presumibilmente medioevale, testimoniata da documenti di origine Normanna in cui venivano riportate le rendite del borgo nei confronti del re: era il 1150. A seguire, una serie di eventi catastrofici hanno cercato di scalfire la vecchia signora, denominata da alcuni come Cluvium, da altri come Melae o Melas o contemplata come un sobborgo di Aeclanum.
Il sisma è stato una dolorosa costante nella memoria storica del borgo, a partire dal 1456 e a seguire quelli del 1688, 1702, 1930, 1962, 1980 e 1982, ma altre calamità naturali come alluvioni, frane, pestilenze, invasioni di cavallette hanno minato l’esistenza del vecchio centro abitato, che fu abbattuto, per ragioni di sicurezza, salvando i due edifici simbolo di una realtà ancora presente, il Castello e la Chiesa.
Gli anni ‘70 segnano la rinascita di Melito Irpino tre chilometri più su rispetto al suo esimio antenato. Per anni si è vissuto l’entusiasmo di un centro urbano ordinato e moderno, uno stile post terremoto riversato non solo nell’architettura cubica dei manufatti, ma nel senso di appartenenza ad un sistema all’avanguardia, compatibilmente con una società la cui vetrina aveva come sigla Carosello. Successivo al benessere degli anni ’80 e ’90, Melito oggi, come tutti i piccoli centri, vive uno spopolamento che spesso non è solo fisico ma, purtroppo, anche culturale, sociale ed economico. Il melitese però, da anni prende spunto proprio da quel Castello, che si erge a dispetto di tutto e resiste al tempo. La realtà melitese è un agglomerato di famiglie che ha deciso di restare, di investire dando occupazione ai tanti ragazzi cresciuti a colpi di figurine e calcio giocato in un campo in cui bisognava scansare le pietre per potersi guadagnare l’angolo giusto per l’assist della stagione. Storica la tradizione gastronomica del paese, con le due realtà imprenditoriali – Antica Trattoria di Pietro e Trattoria Pizzeria Matullo – che sfidano il tempo e il galoppante “finger food”: a loro spesso viene affiancato il suono “Melito Irpino” all’attenzione degli “stranieri”. Qualcuno di loro ha anche esportato il famoso “cicatiello con il puleo”, erba selvaggia la cui proprietà è da sempre contesa con gli amici grottesi. Poco importa, se ha fatto innamorare anche gli svedesi e i giapponesi!

Il nucleo del paese è pressoché un anello stradale, pianeggiante e contornato da una pineta, un polmone verde, che ha ben poco da riciclare in termini di smog. In realtà l’antica pineta è una protezione immaginaria, un confine spazio temporale tra la società metropolitana e Melito Irpino, la “Terra di Mezzo”. Anche se moderne strutture – come il centro sportivo appena ultimato, il neonato parco giochi che fa gola ai bimbi irpini, una riqualificazione stradale e dell’edificio scolastico testimoniano che Melito procede nella sua evoluzione– la percezione di chi torna è che qui tutto è fermo ad un tempo lontano, in cui probabilmente si era più spensierati. Chi torna anche dopo anni, ritrova la stessa essenza di sempre, mutata solo in poche eccezioni sociali. Qui è come restare giovani, perché anche se lavori a Manhattan, quando torni a Melito, non guardi l’orologio e il tempo scorre tra chiacchiere, ricordi e il remake di qualche “goliardata giovanile”. I più temerari provano persino ad organizzare qualche partita di calcetto, a dispetto degli anni e del mal di schiena.
Insomma, puoi anche essere un dirigente altolocato, quando torni a Melito, sei un teenager che si muove in scooter e indossa sneakers. Forse è proprio qui che è custodito il segreto della eterna giovinezza. La stortura sociale, rappresentata dall’assenza costante di stimoli nei giovani, è fotografata nei tronchi degli alberi della pineta, inclinati dal vento e dalla storia naturale, ma che non si piegano mai completamente. Proprio come quella percentuale di menti fresche e temerarie che parlano di teatro e letteratura, che professano la “poesia” intorno ad un albero, che producono vino, olio, pane e con orgoglio marchiano l’etichetta con la definizione “prodotto a Melito Irpino”.
Il melitese è un rivoluzionario e non sa di esserlo. Centro conosciuto per la perfezione del tracciato podistico improvvisato: poco più di un chilometro, che maratoneti locali e non, bagnano di sudore quotidianamente. Melito quindi è anche meta sportiva. Se Paul Gauguin, “chiudeva gli occhi per poter vedere”, la fantasia dei melitesi ha permesso loro di avere un “lungomare”. Una meritata “promenade” ai piedi del centro abitato, delineato da una balconata sulla verde campagna tra Melito e Grottaminarda, dove tutto è aperto e possibile. Nei ricordi e nelle speranze degli indigeni c’è anche una tradizione, breve ma intensa, come il “Melito Music Beer Festival”, un evento musicale estivo di tre giorni che ha portato per circa 10 anni numerosi artisti e visitatori nel corso delle edizioni. Ovviamente la location è stata la pineta. Qualcuno dice che “tornerà” e, se si chiudono gli occhi, l’odore dell’erba tagliata, il rumore di un palco in montaggio, l’emozione di un soundcheck, persino il morso fastidioso di una zanzara, appaiono probabili quasi come un lungomare nell’entroterra!

Il piccolo paese irpino è anche oltreoceano, precisamente a Boston dove l’associazione “MIBA – Melito Irpino Boston Association”, rivive usi, costumi e tradizioni dei suoi componenti mediante riunioni periodiche e condivisioni di eventi, a testimonianza che un legame con la terra natale è un porto sicuro anche se c’è un oceano di mezzo. Una comunità parallela che, pur vivendo il proprio “sogno americano”, posta sui social tavole imbandite con piatti melitesi, famiglie intente a preparare la conserva di pomodoro o mentre onorano la Madonna dell’Incoronata con processione e stendardo. Un omaggio all’antica tradizione religiosa melitese e come devozione l’offerta di un altare, stendardo e statua della Madonna da parte del Sig. Carmine Di Flumeri, trasferitosi a Boston circa 60 anni fa. Un piccolo paese, con tanti “quartieri nel mondo”: è il potere della memoria. Ma, come da un nonno la domenica, si ritorna periodicamente al vecchio paese, per devozione e rispetto, come rifugio o più egoisticamente per esigenza. Laggiù tutto scompare, magicamente anche il segnale telefonico, a ricordarti che sei lì per goderti l’esperienza, per ricostruire la memoria di quei vicoletti gremiti di parole di un tempo lontano e di pezzi di pietra.