The king of paparazzi

 The king of paparazzi

Rino Barillari

Parlare con Rino Barillari, il famoso fotografo della Dolce Vita Romana, significa immergersi in un mondo magico, in cui personaggi iconici per la loro grandezza e fama, venivano immortalati in scatti rubati capaci da soli di raccontare delle storie: tradimenti, allontanamenti, nuovi amori ancora in incognito, intrighi, affari…In questo Saverio (il suo nome all’anagrafe) Barillari è stato così bravo da meritarsi il titolo di “the King of Paparazzi”. Un grande traguardo, soprattutto se si pensa che ha lasciato la Calabria (è nato a Limbadi in provincia di Vibo Valentia, l’8 febbraio del 1945), che lui chiama affettuosamente “calabrifornia” e la famiglia a soli 14 anni e ha mosso i suoi primi passi aiutando gli “scattini” (chi per lavoro fotografava i turisti) presso la Fontana di Trevi. Erano gli anni fra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60  e l’Italia stava vivendo un vero boom economico: sulle strade sfrecciavano le Vespe, le Fiat 500 e le Giuliette, nelle case comparivano i primi televisori che trasmettevano solo in bianco e nero  e gli studi cinematografici di Cinecittà richiamavano a Roma divi di fama mondiale come Liz Taylor, Sylvester Stallone, Ava Gardner, Barbra Streisand, Brigitte Bardot, Frank Sinatra e Richard Burton, che passeggiavano in Via Vittorio Veneto e in Via dei Condotti o sostavano all’Harry’s Bar, al Café de Paris e nei locali più lussuosi della capitale: una vita da sogno che Rino Barillari ha ritratto nei suoi scatti immortali.

A differenza di altri colleghi lei vive la definizione di “paparazzo” come un riconoscimento.

Certo, perché il termine, nato da un personaggio della Dolce Vita di Fellini (film del 1960), è conosciuto a livello mondiale e rappresenta la figura di un fotoreporter in cui mi rispecchio: quello che coglie un momento particolare e lo blocca in un fotogramma significativo, anche a costo di scontrarsi con il personaggio, che invece vorrebbe concordare le foto per apparire sempre al meglio.  Il mio lavoro è d’informare il pubblico, non di mettermi al servizio dei vip: devo ritrarre la realtà, anche, e direi soprattutto, quando non è perfetta. Il paparazzo va a caccia di notizie e di scoop, investe tantissimo tempo ed energie per fare questo: il risultato è che uno scatto rubato spesso racconta una storia, trasmette emozione e verità e il pubblico se ne accorge.

Perché ha lasciato la Calabria? Fuggiva da qualcosa o inseguiva un sogno?

Allora si era appena usciti dalla guerra e c’era voglia di dimenticare, vivere e ricostruire. Io avevo 14 anni, avevo finito gli studi ed ero pieno di grinta e voglia di lavorare così, con alcuni amici decisi di lasciare la Calabria per recarmi in cerca di fortuna a Milano o Torino, ma i soldi mi bastarono solo per arrivare a Roma e quindi mi fermai. È stata la mia fortuna o forse il destino: all’inizio parlavo solo calabrese e impazzivo a causa del traffico e delle dimensioni della città. Per sbarcare il lunario raccoglievo le monetine che i turisti tiravano nella fontana di Trevi e che invece cascavano fuori, ma nel giro di poco cominciai ad aiutare gli “scattini”: loro facevano le foto ai turisti e io andavo a consegnargliele in albergo una volta sviluppate. Intanto osservavo e apprendevo. Poi cominciai a fotografare anch’io ed emerse il mio talento: in poco tempo fui in grado di comprarmi una macchina fotografica a Porta Portese e cominciai a girare di notte alla ricerca di attori famosi: allora molti erano americani e io li riconoscevo perché in Calabria avevo aiutato mio zio, che era il proprietario di una sala cinematografica e quindi vedevo ogni film almeno 3 volte ogni giorno.  Li fotografavo e poi vendevo gli scatti all’ANSA, all’UPI e all’Associated Press.

C’è qualcuno a cui sente di dover dire grazie per la tua carriera?

Innanzitutto alla gente di Roma:  albergatori, autisti e ristoratori, che mi hanno permesso, con le loro segnalazioni di lavorare come freelance per i primi anni, e poi alla moglie di Renato Angiolillo, allora direttore de Il Tempo che mi segnalò al marito, facendomi assumere e cambiandomi la vita: di giorno mi occupavo di cronaca nera per Il Tempo e di notte giravo a caccia di scoop nelle aree in cui erano allestiti i set o dove solitamente si recavano i vip: Via Condotti, Via Nazionale, Piazza di Spagna, Piazza del Popolo, Trastevere.

Come viveva questa dicotomia?

All’inizio è stato difficile soprattutto abituarmi alla vista dei cadaveri per il lavoro di cronaca nera, poi ho imparato a crearmi una corazza e a farlo diventare solo uno degli aspetti del mio lavoro: ero pagato per portare al giornale immagini esclusive, non importava che fossero di una vittima, di un testimone, di un inquirente o di un personaggio glamour. Oggi è tutto più facile, anche grazie ai teleobiettivi, ma allora dovevi conquistarti la notizia, battere gli altri sul tempo, agire di psicologia, magari andando a fotografare i parenti del morto prima ancora che ricevessero la notizia dell’omicidio.

Una delle sue frasi è: “la guerra è guerra, mai rinunciare semmai ti accordi”. Non esistono eccezioni?

Sì, a volte valuti i pro e i contro e se hai uno scatto che può provocare danni seri a una brava persona o a un amico ci pensi. Una foto può rovinare la carriera, la famiglia o la vita stessa di qualcuno ed è una grande responsabilità. Diciamo che cerco di aiutare chi merita rispetto (l’ho fatto con Marcello Mastroianni, alticcio fuori da un locale per esempio), ma oggi mi capita molto raramente perché ci sono tanti personaggi di poco spessore, che sono i primi a mettersi in piazza senza dignità. E poi dipende da come ti senti in quel momento e da quanta pressione ricevi da parte dei giornali.

C’è una foto di cui si è pentito?

Pentito no, perché questo è il lavoro che faccio per vivere e se non sono in grado di accettarne gli effetti collaterali devo cambiare mestiere. Però in alcuni casi mi è dispiaciuto per le conseguenze che ne sono derivate. È un’arma a doppio taglio: c’è chi mi ringrazia perché alcune immagini sono testimonianze insindacabili di verità importanti e chi mi detesta. È una professione che richiede intelligenza, cuore, una bella corazza…e anche un po’ di pelo sullo stomaco.

163 ricoveri, 11 costole rotte e 1 coltellata, quello del paparazzo è un mestiere pericoloso!

Si, e anche 3 effrazioni in casa per rubarmi dei negativi. Diciamo che occupandosi di cronaca nera devi sempre mettere in preventivo un po’ di rischio: scattare foto quando sei in mezzo a degli scontri fra manifestanti o ritrarre il cadavere di un ragazzo con il padre che ti osserva può provocare reazioni anche violente. Per quanto riguarda i personaggi dello spettacolo, spesso sono proprio loro a creare la rissa perché sanno che questo li farà finire su Paris Match o Life. A me è capitato con Frank Sinatra, che alla fine mi ha stretto la mano come se non fosse successo nulla ed è andato via in compagnia di Domenico Modugno, ma le fotografie del nostro scontro hanno fatto il giro del mondo.

Un po’ di nostalgia per l’Italia della Dolce Vita?

Molta, quello era un Paese che voleva sorridere, che aveva dei sogni, orgoglioso del “made in Italy”: la moda era fatta di gusto, creatività ed eleganza, le donne erano raffinate e affascinanti, gli uomini facevano il baciamano e si toglievano il cappello in segno di rispetto, oggi sono tutti sopra le righe, sempre con il bicchiere in mano, tutta apparenza e poca sostanza.

C’è un tuo scatto che è maggiormente rappresentativo di quell’epoca?

Sì, quello che ritrae quattro regine (Sofia di Spagna, Irene e Federica di Grecia e Anna Maria di Danimarca) che passeggiano tranquille per via Condotti, senza scorta, come se fossero persone comuni. 

Quanto conta il rispetto nel tuo lavoro?

Il rispetto è reciproco e si guadagna con la serietà e l’affidabilità. Certo a volte la stima va a discapito del lavoro perché un po’ ti blocca e ti censura, ma nello stesso tempo se un personaggio si fida di te, ti permetterà di scattare foto che altri non otterrebbero mai.

Ha detto è che le foto si fanno con la testa, ma credo che anche l’intuizione sia fondamentale?

Sì, ma tutto nasce dall’esperienza, che ti aiuta a capire dove potrebbe crearsi una situazione da scoop: io uno scatto di cronaca me lo “aspetto” prima ancora che avvenga il fatto. Oggi con le nuove macchine puoi fare centinaia di fotografie, ma quella sensazionale sarà sempre solo una.

Cosa rende un fotoreporter “The King”?

La capacità di capire le situazioni e le persone, la curiosità, il coraggio, l’intelligenza, lo spirito di sacrificio, la pratica, il talento e, a volte, anche un po’ di fortuna.

Come è cambiata la richiesta da parte dei giornali?

Un tempo alcuni fotografi erano dei veri e propri poeti delle immagini, oggi i social hanno impoverito tutto: ogni evento, anche il più privato, viene fotografato col telefonino e poi pubblicato, togliendo qualsiasi curiosità a chi osserva; quindi, è diventato ancora più importante (ma anche più difficile) avere degli scatti esclusivi. C’è un eccesso d’immagini ma poche sono significative.

Non crede che questa sovraesposizione “smitizzi” i vip di oggi?

Un tempo le persone aspettavano con ansia l’uscita di riviste come Grand Hotel, Visto, Stop, etc. per scoprire i segreti dei loro idoli, oggi vanno sui loro profili, ma vedono solo ciò che gli viene mostrato. Un tempo si fantasticava sulle vite dei vip, ora è tutto online, tutto ritoccato. L’importante è esserci sempre, anche se non hai nulla da comunicare. La grandezza di una star sta anche nella capacità di fare un passo indietro, di non cercare di apparire a tutti i costi. Sono pochissimi a farlo, Mina è una di loro: a un certo punto ha scelto di lasciar parlare solo la sua voce e di ritirarsi. Io continuo a fotografarla, ma non venderò mai i suoi ritratti, perché sono la testimonianza del rispetto e della fiducia che ci lega da decenni

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