Ruggero Po

Voce storica di Radio Rai, una vita legata al microfono
di Antonella Marano
Ruggero Po è un nativo radiofonico. Il microfono è l’estensione del suo braccio, la radio è la sua casa, la comunicazione la strada maestra che ancora percorre con grande passione. La voce inconfondibile di Po ha arricchito per anni Radio Rai con programmi di punta quali Baobab, Radio Anch’io e Zapping. Attualmente è impegnato con Alta Sostenibilità, programma settimanale di Asvis (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) e Radio Radicale. Ma la sua carriera affonda radici ben più profonde.
“Cominciai, molto prima delle “radio libere”, a Radio Capodistria. Avevo diciassette anni e mi proposi a questa radio italofona d’oltreconfine per delle trasmissioni musicali. Ebbi un discreto successo, anche se il colpo di fulmine con la radio mi portò a perdere due anni di liceo. Poi fu il momento di Radio Bruno. Sono molto contento di avere contribuito all’affermazione di un’emittente oggi molto ascoltata non solo in Emilia”.
Cosa ricordi del tuo primo incontro con il microfono?
“Dopo cinquant’anni sento ancora gli odori, vedo ancora quel microfono pendere da un’asta, il tavolino esagonale, il vetro della regia, i tecnici in camice bianco”.

Poi il tuo approdo in Rai. Come è cambiato il modo di fare giornalismo e quali sono le caratteristiche a cui un giornalista radiofonico non potrà mai rinunciare?
“La soddisfazione dell’assunzione in Rai, quando ormai sulla soglia dei 40 anni non ci credevo più, fu immensa. Come grande la soddisfazione di avere scalato le posizioni, senza raccomandazione alcuna, fino alla conduzione del GR e dei due programmi più importanti di Radio Rai. Fare giornalismo, oggi, significa saper dominare i nuovi media, sapere interagire con i social, saper distinguere, molto più di ieri, le notizie dalle fake. Un tempo avevi molto più tempo per le verifiche. Oggi devi capire al volo, avere fiuto e esperienza anche perché le fake aumentano esponenzialmente. Riguardo alle caratteristiche del radiofonico la principale resta la voce. Ma non basta che sia bella, deve essere espressiva, colorata”.
Il nostro Paese sta vivendo un momento buio…
“Ho attraversato, già da giornalista, gli anni bui del terrorismo, quando sembrava di non potersi più risvegliare. Ho vissuto l’ansia dei ‘russi e degli americani’, come cantava Lucio Dalla, e la certezza che un giorno o l’altro qualcuno avrebbe pigiato quel dannato bottone. Ho raccontato le Torri Gemelle che cadevano e gli anni successivi del terrorismo mediorientale. Che cosa sarà mai ora una pandemia? Scherzi a parte, so che ne usciremo e coltivo l’illusione che sarà una rinascita vera, nuova, degna di un vero dopoguerra. Perché oggi siamo in guerra. Speriamo solo che sia una rinascita sostenibile con nuovi modelli economici, di consumo e ambientale”.
C’è una storia o un evento che ha segnato il tuo percorso professionale?
“La trasformazione della tv di quarant’anni fa, con l’esplosione dei talk show e dei processi televisivi di piazza, con le inchieste a tesi, mi hanno fatto capire quanto il nostro mestiere sia pericoloso e delicato, se lo vuoi fare bene. Quando io stesso sono diventato conduttore di talk ho sempre tenuto all’obiettività e all’obbligo morale di raccontare, di un evento, tutto quello che sai, non solo quello che ti fa comodo per sostenere una tesi e cavalcare un trend”.
Un consiglio ai futuri giornalisti?
“Posso sconsigliare a chiunque si avvicini alla radio, e soprattutto alla tv, di farlo per diventare una star. Si perde il senso di se stessi e molti volti di oggi, senza fare nomi, lo dimostrano. Io non sono mai appartenuto a questo mondo, mi sono levato da sotto i riflettori prima di raggiungere l’età della pensione, e ora vivo ‘in borgata’, come si diceva una volta, in un quartiere della periferia popolare dove i vip scarseggiano. E sto bene”.