Hugo Onlus

 Hugo Onlus

Un progetto d'amore che va oltre la vita

Ci sono momenti della vita che costituiscono un vero e proprio spartiacque esistenziale, definendo un confine netto fra “il prima” e “il dopo”. È esattamente ciò che è successo a Maria Grazia Pisano, avvocato di Avellino, quando, nel 2006, suo fratello Hugo perse la vita in un incidente stradale. Il loro era un rapporto strettissimo, di complicità, affetto e condivisione di valori importanti, tra cui l’attenzione per il sociale. Oggi Maria Grazia ha trasformato, come per alchimia, un dolore straziante in speranza di vita, fondando, nel 2010, la Hugo Onlus, nata per realizzare progetti solidali verso un’umanità che ogni sera si addormenta nella consapevolezza di svegliarsi il mattino seguente per trascinarsi in un’altra giornata di sopravvivenza.

L’Associazione opera prevalentemente in Guinea Bissau, come mai?

È come se i miei passi fossero stati guidati da una forza superiore, che ha fatto incrociare il mio cammino con quello di Padre Alberto Zamberletti, medico-missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere), ormai caro amico, che da oltre 30 anni opera in quello che è uno dei più piccoli Stati dell’Africa Occidentale, ai confini con il Senegal, caratterizzato dall’alta instabilità politica e istituzionale, con una forte incidenza di fenomeni criminali e un grave sottosviluppo a causa del quale la durata della vita media è di 58 anni, con un 60% di popolazione analfabeta. Qui i missionari hanno dato una forma concreta alla speranza della gente; non hanno costruito prototipi europei di civiltà e sviluppo, ma hanno indossato la pazienza per compiere con la popolazione sofferente, al loro ritmo, il cammino verso un minimo di benessere.

Qual è stato il primo progetto che avete realizzato?

Il “Centro della Salute Hugo e Jego” (dai nomi di Hugo e di un altro ragazzo prematuramente scomparso Jego), a Gambiel: un’unità di Pronto Soccorso, Farmacia naturale, Centro Nutrizionale per i bambini denutriti, di monitoraggio delle donne incinte oltre che Centro per la profilassi antimalarica, realizzato di concerto con il Pime, che ancora oggi mi è accanto sottoponendomi i progetti che finanzio. Il presidio sanitario si trova in una Regione dove non c’è distribuzione di farmaci, nemmeno quelli di urgenza, non c’è alcun ausilio medico di supporto, non vi è nemmeno la presenza di un’ostetrica per assistere le partorienti e dove la gente era costretta a percorrere a piedi decine e decine di chilometri alla ricerca di farmaci e indicazioni mediche.

Attualmente di cosa vi occupate?

Attraverso il 5×1000 la ONLUS, oltre a continuare a garantire il buon funzionamento del Centro della Salute sia dal punto di vista della gestione dei medici e dei volontari che degli approvvigionamenti, fornisce farmaci (che qui rappresentano dei beni quasi introvabili e preziosissimi) alla Caritas della Guinea Bissau onde poter sostenere altri dispensari medici oltre quello di Gambiel. Inoltre, finanzia le attività dei centri di recupero nutrizionale per i bambini denutriti, dei centri di maternità, dei lebbrosi, degli ammalati di AIDS e tubercolosi e organizza adozioni sanitarie, salvando numerose vite che altrimenti andrebbero perdute. Abbiamo costruito alcune infrastrutture (un ponte e alcuni pozzi che garantiscono l’approvvigionamento d’acqua) e due scuole. Inoltre, è stato realizzato un progetto volto all’allevamento e alla cura delle api nonché all’insegnamento della trasformazione dei prodotti da esse derivati. Tutto questo è stato ottenuto anche attraverso il supporto degli amici di Hugo, delle istituzioni cittadine avellinesi, dei medici che mi hanno affiancata e dei concittadini tutti, che hanno contribuito a realizzare dei veri e propri miracoli, che io seguo personalmente in ogni fase: dalla scelta del progetto alla sua concretizzazione. In particolare, mi sono sempre stati accanto in tutti questi anni: il PIME e padre Alberto Zamberletti, monsignor Don Pedro Zilli, l’associazione guineana AMEV, il dott. Giuseppe Gorgoglione, il notaio Massimo Giordano, gli avvocati Linda Soraida Ricciardelli e Gaetano Aufiero, la sig.ra Alfonsina Renaudo, la famiglia Tulimiero, la dottoressa Daniela Percesepe, il dott. Francesco Natale, il sig. Roberto Saporoso (la rocca gioielli), l’azienda Barra, l’avv.to Alfredo Bergamino e il farmacista Alessandro Capozzi.

Cosa le dona l’Africa?

È come entrare in un’altra dimensione, dove non c’è spazio per pensieri complicati e poco concreti. A differenza della nostra società occidentale, fatta di beni materiali e fondata sul concetto dell’individuo e del profitto – che spesso generano un senso di vuoto e inquietudine – qui si vive in comunità, la gente è tutt’uno e solidale, lo spirito è pieno di speranza. I bambini, che spesso non hanno cibo e vestiti, sono figli del villaggio, non solo dei loro genitori e gli anziani sono ritenuti fonte di saggezza e autentica risorsa. È la comunità che conta, la solidarietà, la famiglia nel senso più completo del termine.

In realtà il richiamo per questa terra meravigliosa e difficile risale addirittura a suo padre.

Sì, involontariamente ho realizzato ciò che lui aveva tentato di fare, senza riuscirci, allontanandosi da casa all’età di 16 anni per raggiungere il dottor Albert Schweitzer (Nobel per la pace 1952), definito il “benefattore degli africani”, a Lambarené, nel Congo. Quel suo desiderio ha cominciato a vivere in me sin da quando avevo 13 anni, ma essendo troppo giovane, ho dovuto aspettare, conseguendo la maturità classica, la laurea in giurisprudenza e diventando avvocato…finché la morte di mio fratello mi ha riportata sul percorso a cui ero destinata.

Credo che quello in Africa sia anche un viaggio dentro di sé.

Sì, io pensavo di partire per Hugo, piena di idee e con il sogno di dedicargli un’opera viva; invece, poi mi sono resa conto che lui era già lì ad aspettarmi: per farmi trovare casa, accettare la nostra separazione fisica e cambiare profondamente. Se si parte lasciando a casa il superfluo non si può che rimanere nudi con noi stessi e il viaggio si trasforma in un pellegrinaggio verso l’altro e verso la nostra anima: l’Africa che ho cercato era prima di tutto dentro me, l’unico posto in cui ho ritrovato la mia utilità e il riconoscimento della mia essenza. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare è lei che viene in soccorso all’uomo occidentale, liberandolo dagli schemi e dalle infrastrutture tipiche della nostra Società, obbligandolo a prendere la lentezza del “tempo africano” e a ragionare con la mentalità volta verso la sopravvivenza, senza spazio per la progettualità. L’ Africa ti spoglia proprio come una mamma che ti prepara a rivestirti di te stesso.

Anche lei prova il “mal d’Africa”?

Ogni qualvolta debbo rientrare in Italia mi assale una sensazione di profonda nostalgia e il viaggio di ritorno è per me come il consumarsi di una lenta pena. Ho visto negli anni tanta bellezza, tanta disperazione, morte e vita abbracciarsi. Non mi sono mai lamentata del caldo o per il cattivo funzionamento del generatore, per le zanzare che danno il tormento, la malaria, la mancanza di acqua corrente e tecnologia. Io non vado semplicemente in Africa ma la vivo.

Lasciandola la prima volta mi chiesi: perché proprio io? Lei mi rispose perché mi appartieni!

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