Gianni di Giovanni, l’informazione al tempo dei social
Fare informazione oggi è forse ancora più importante che in passato: con l’avvento di internet e dei social media si sono infatti moltiplicate le fonti d’informazione e gli spunti, ma non sempre quanto viene scritto e diffuso corrisponde a verità e risulta attendibile. Le fake news, a volte anche pilotate per influenzare la pubblica opinione, sono ormai all’ordine del giorno e rappresentano un problema su cui tanti organismi di controllo si stanno interrogando. Per cercare di capire cosa stia succedendo, e per conoscere meglio il mondo dell’informazione, ho intervistato il Dott. Gianni di Giovanni, giornalista, per anni Amministratore Delegato di AGI (Agenzia Giornalistica Italiana) e Vicepresidente FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) per la categoria Agenzie Nazionali. Attualmente è Presidente delle società Eni in Cina e capo dell’ufficio di rappresentanza del “Cane a sei zampe” a Pechino, nonché autore di “Niente di più facile, niente di più difficile – Manuale (pratico) per la comunicazione” (Fausto Lupetti Editore) e de “La casa di vetro. Comunicare l’azienda nell’era digitale” (Rizzoli Etas).
Com’è cambiato il ruolo del giornalista con l’avvento di internet?
La parola chiave è “disintermediazione”: mentre prima il ruolo del giornalista era quello di fungere da tramite tra la notizia e il pubblico, ora, con l’avvento delle digital news, questa figura è radicalmente cambiata, e con lei anche la professionalità, la formazione e l’etica. Prima la notizia veniva confezionata in modo da essere fruibile da tutti, oggi invece il pubblico vuole l’immediatezza, a volte a scapito dell’accuratezza e, qualche volta, anche della veridicità. È importante sottolineare che si è anche realizzato un “allargamento degli orizzonti informativi” tale che, anche una notizia proveniente da un remoto angolo del mondo, diventa un’informazione interessante e quindi veicolata dai media, con il conseguente effetto-entropia.
In un mercato sempre più frammentato come si fa a raggiungere i grandi numeri?
Paradossalmente i contatti ora raggiungono te. Mentre una volta lo “scoop”, se gestito bene, ti portava un’audience rilevante, adesso funziona esattamente l’opposto: si deve creare una community che riceva le news. Mediante un lavoro d’informazione, ma anche d’intrattenimento, attivando accorgimenti che, spesso e volentieri, sono più di marketing che di comunicazione (soprattutto se si parla di social), si stimola una “conversazione” intorno alla notizia, in modo da realizzare un effetto moltiplicatore, con lo scopo di attirare nuovo pubblico. Sorge però un problema: il lettore/spettatore/ascoltatore, un tempo, approdato sul tuo “spazio di comunicazione”, con ogni probabilità, sarebbe rimasto lì; oggi è tutto più precario e fluido e risulta quindi fondamentale creare fidelizzazione, con mezzi che spesso nulla hanno a che vedere con il giornalismo.
A volte alcune notizie di cronaca o gossip ricevono più spazio di altre che hanno maggior rilevanza: come viene valutato il peso di una notizia?
I media si sono naturalmente adeguati al mondo che stiamo vivendo, divenendo molto più leggeri e meno strutturati, più dinamici e più veloci. Però, per sopravvivere, hanno bisogno che qualsiasi notizia, su qualsiasi piattaforma venga editata, venga retribuita e, per farlo, devono utilizzare molto più “infotainment” (l’informazione mixata con l’intrattenimento) che, tendenzialmente, cattura un pubblico più vasto.

In questo modo non si perde un po’ la funzione educativa?
Sì è così. É un tema molto discusso anche fra gli esperti, gli editori e i professionisti del settore: l’aspetto educativo sta effettivamente diventando sempre più laterale e, probabilmente, ne pagheremo il prezzo in futuro.
Com’è cambiato invece il mondo dei media?
Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione: l’avvento del digitale ha cambiato radicalmente la Società e i suoi modelli, toccando pesantemente i media e il mondo dell’informazione, tanto che alcuni segmenti di giornalismo sono addirittura in via di estinzione. In certe aree del mondo, ad esempio, la tv generalista sta scomparendo, sostituita dal web, che è più veloce, completo e personalizzabile. In mezzo a questo vortice di cambiamento si sono ritrovati anche i giornalisti, che hanno perso sicurezza e riferimenti. Un tempo la carriera era strutturata e quasi assicurata: si partiva dalle agenzie di stampa per arrivare ai quotidiani locali e poi magari ai nazionali, oggi invece molti di questi media sono in via di scomparsa e non esiste più una netta distinzione fra chi è professionista e chi no. Nello stesso tempo è vero però che esistono anche strutture web molto valide, anche se magari non gestite da giornalisti, specialmente all’estero, negli Stati Uniti. Di fronte a un quadro così magmatico è quindi davvero difficile trovare i paradigmi giusti che ci consentano di raggiungere e un equilibrio in linea con un cambiamento così importante. Sono stato per tre anni ai vertici di AGI (Agenzia Stampa Italia) e il problema ce lo siamo posto discutendo con l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, la Federazione della Stampa e il Governo, ma ancora si fatica a trovare la soluzione più giusta. Anche perché la situazione è in continuo mutamento, soprattutto con l’avvento dei social media, che hanno stravolto totalmente il settore della comunicazione e che rendono quasi impossibile creare una regolamentazione efficace e stabile a livello mondiale. Diciamo che, in Europa, siamo a metà del guado tra l’avere un contesto tradizionale, con un professionista iscritto a un Ordine o Associazione, e strutture aperte come quelle americane, in cui chiunque scriva per una testata con una certa continuità, viene automaticamente riconosciuto come giornalista.
In questo “magma”, come lo ha definito, gli ordini di categoria hanno ancora un senso?
Penso di sì, ma con un ruolo modificato rispetto al passato: oggi sono più identificabili in strutture sindacali, che riuniscono i professionisti, li rappresentano e li tutelano, piuttosto che in entità “accademiche” che rilasciano la patente di giornalista.

Può esistere davvero un giornalismo neutrale?
Il giornalista deve essere neutrale per definizione. Ma certamente non può essere “neutro”. Ovvero gli elementi costitutivi dell’informazione sono pesantemente condizionati da ragioni, politiche, economiche, sociali, religiose. Tuttavia, esistono – in larga maggioranza – giornalisti e testate affidabili e credibili, il cui nome è garanzia di neutralità: dal nostro Corriere della Sera al New York Times, possiamo realmente sperare in un giornalismo indipendente e di qualità.
Un altro problema rilevante è quello della proprietà intellettuale sui contenuti editati dai media.
Questo è un tema molto delicato e largamente dibattuto: personalmente ritengo che siano le Istituzioni, libere da interessi di parte, a dover legiferare e vigilare su questo problema molto sottovalutato.
Diritto di critica e denigrazione: un confine sempre più labile.
Diciamo che è un po’ la difficoltà dei nostri tempi e di questi nuovi media poiché, per quel concetto di disintermediazione di cui parlavamo, chiunque può dire qualsiasi cosa, soprattutto in ambito digitale. Anche in questo caso ritengo che sia compito delle Istituzioni intervenire dettando regole ferree e sanzionando pesantemente chi non le rispetti.
Secondo lei c’è una possibilità di convivenza fra il digitale e gli altri media?
È inevitabile che il digitale continui a crescere a danno della carta stampata (e non solo). Anche se penso che la “carta” abbia ancora le sue chances. Chiaramente dovrà un po’ cambiare il modello di riferimento, teso molto più all’approfondimento e al commento, più che alle “breaking-news” (il modello del Foglio è certo tra i più riusciti).
Il caso della radio però mi sembra diverso.
È vero, il sistema radiofonico ha già dovuto sopravvivere all’attacco della televisione anni fa, eppure si è adeguato molto bene. Oggi può essere citato come esempio di resilienza e adattamento ai tempi, con una straordinaria capacità di cambiare senza perdere la propria identità.