Franco Arminio
- Cultura
irpinitaly
- 18 Maggio 2023
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Fra poesia e territorio
Franco Arminio è nato e vive a Bisaccia, in provincia di Avellino: è un poeta, uno scrittore, un documentarista e il promotore di molteplici battaglie a tutela delle tradizioni e dell’ambiente, in particolare contro lo spopolamento dell’Italia interna. Apprezzatissimo dalla critica e dal pubblico, è stato definito da Roberto Saviano come «uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto” (n.d.r.. il sisma che devastò l’Irpinia nel 1980) e una sua poesia è stata recitata sul palco del Festival di Sanremo da Filippo Scotti e Marco Mengoni. Arminio è profondamente legato alle proprie radici e alla verità delle cose semplici, della natura e dei borghi (per difendere i quali ha aperto nel 2014 a Trevico la “Casa della paesologia”), amore che esprime nelle numerose opere poetiche e in prosa, per le quali ha vinto anche vari premi, tra cui il lo “Stephen Dedalus per “Cartoline dai morti”, il “Carlo Levi” e il “Volponi” per “Terracarne” e il Premio Brancati per “Cedi la strada agli alberi”.
Si definisce “paesologo”: mi descriva questa figura.
È colui che non si sofferma sul proprio spazio, ma volge lo sguardo a tutti i paesi, analizzandone il presente e, soprattutto, le potenzialità future, colui che vede territori spopolati e si batte per riportarli in vita: è una guerra che combatto da più di trent’anni, ma, con amarezza, devo ammettere di essere riuscito a vincere solo qualche battaglia.
“La punta del cuore, poesie dedicate alla madre”: oltre alle radici dei luoghi anche quelle dei sentimenti…
Questo libro è dedicato a lei, ma la sua presenza si percepisce in tutti i miei testi; abbiamo avuto un rapporto molto stretto anche perché io ho sempre vissuto nel paese e nella casa in cui sono nato e quindi, abbiamo condiviso la quotidianità per tutta la vita. La sua malattia mi ha condizionato come figlio e come scrittore: la paura che venisse a mancare e il senso costante di sospensione sono stati il combustibile del mio sentire poetico. Scherzando, ma non troppo, dico che mia madre mi ha insegnato l’ansia e mio padre il malumore. Però dopo averli persi ho ritrovato in me qualcosa di loro: la sensibilità di lei e l’ironia di lui.
“Studi sull’amore”, pubblicato nel 2022. Dopo averlo tanto studiato cos’ha capito dell’amore?
Quello che hanno capito tutti: che non è una scienza esatta, che ha un accesso storto e sghembo, che di fronte a questo sentimento siamo sempre bambini delle elementari. Ogni volta dobbiamo ricominciare dall’alfabeto per poter scrivere una nuova storia: ci portiamo nelle relazioni i nostri fantasmi, le aspettative e le paure e tutte le esperienze consumate rimangono dentro di noi, ma senza avere una forma definita, per cui in qualche modo risorgiamo a noi stessi a ogni incontro.

“Poeta con famiglia”: la sua che ruolo esercita?
Io la vivo pienamente: mia moglie e i miei due figli rappresentano “il mio paesaggio personale”. Fra l’altro viviamo nella casa in cui sono nato, quindi il nuovo nucleo si è innestato in quello d’origine, si è creata una continuità generazionale e affettiva, come se si fossero fuse le due famiglie: prima ero figlio in questo luogo e adesso sono padre.
“Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra”. Dobbiamo dare spazio alla natura per salvarci?
L’uomo deve rallentare, deve ricominciare a comunicare con ciò che lo circonda; abbiamo la superbia di pensare che noi siamo gli unici attori di questa commedia chiamata vita, ma non è così.
Ha più volte affermato che “lo sguardo cura”. In che modo?
È un tema presente in quasi tutti i miei libri perché penso, in modo un po’ panteistico, che la meraviglia e la grandezza del mondo siano fuori di noi e che Dio si possa cogliere in ogni minima espressione del creato quindi, osservando la bellezza che ci circonda, ci nutriamo del divino in essa contenuto e curiamo le nostre ferite interiori. In questo momento nell’uomo c’è un delirio antropocentrico per cui si ritiene erroneamente di essere bastevoli a noi stessi, come individui e come specie: dobbiamo riappropriarci dell’idea che attingiamo dall’esterno, anche solo per respirare l’ossigeno che ci mantiene in vita.
Ha scritto: “più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Quanto siamo distratti da ciò che veramente conta?
Penso che oggi si sia sempre troppo distratti: spesso ci accorgiamo di quello che abbiamo solo quando lo perdiamo: l’amore, la salute, un affetto, un’amicizia. Solo riportando consapevolmente l’attenzione sulla vastità e profondità che ci attornia, potremo ritrovare l’essenza della nostra esistenza.
Il suo ultimo libro s’intitola “Sacro minore”: perché minore?
Io non sono praticante di una religione codificata però sono uno “spirito religioso”, nel senso che attendo all’invisibile, all’altrove; non mi interessa solo il contingente, ma cerco e osservo il mistero, che colgo in tutto quanto “esiste” su questo piano dimensionale. Per me il sacro non è separato da noi e dalla nostra quotidianità, ma ci accompagna in ogni gesto, incontro, oggetto: in questo senso lo definisco “minore”, perché non c’è separazione fra noi e il trascendente, qualsiasi cosa può regalarci un momento di intensità tale da divenire “rivelazione” del divino.
Ha scritto “Siamo esseri antichi”, ma anche eterni?
Non so dare una risposta, come credo nessuno, nemmeno la scienza. Personalmente lascio la porta aperta: ci sono momenti in cui percepisco l’infinito e sento di farne parte. Sicuramente mi sento “anima antica”, quindi perché non futura?
Qual è il suo rapporto con la morte?
A causa della malattia di mia madre ho sempre vissuto con una sorta di vicinanza e di paura nei confronti del trapasso, che però ha in qualche modo contribuito a creare la mia struttura come persona e come poeta: mi aiuta a dare slancio e intensità a ogni giornata.
Altri due libri: “Resteranno i canti” e “L’infinito senza farci caso”, sembrano quasi la soluzione alla caducità della vita.
Sì, cerchiamo di fare cose belle e importanti, che forse rimarranno nel tempo e ci regaleranno l’immortalità: bisogna provare a cantare il proprio inno e alzare il piano dell’esistenza, come dovere nei nostri confronti e dell’umanità in cammino e, nel frattempo, guardiamoci intorno, osserviamo, per riuscire a cogliere un momento d’illuminazione e di grazia, diventiamo, con dolcezza e consapevolezza “cercatori d’infinito”.
