Federico Mauro – direttore creativo Vertigo

 Federico Mauro – direttore creativo Vertigo

Pratola Serra, anni ’80, esterno, giorno. Un bambino esce dalla casa dei nonni. Non è bravo a giocare a calcio e non ama le carte. Il paese, come il resto della provincia, offre ben pochi stimoli culturali. Come trascorrere, quindi, i lunghi e ancora analogici pomeriggi in Irpinia? «Il caso ha voluto che davvero a due portoni di distanza dall’abitazione in cui ho vissuto la mia infanzia e adolescenza ci fosse il Cinema Leone, una sala degli anni ’20, tra le più antiche in Campania, e appartenente ad un’importante famiglia di artisti. Ne sono stato fin da subito fruitore eccessivo e ossessivo. Adoravo non solo guardare i film, ma anche ammirare i poster che li annunciavano. Il cinema era il mio mondo e il mio rifugio, sognavo di fare il regista. I miei genitori, inoltre, hanno subito assecondato le mie passioni, non facendomi mai mancare la telecamera e il computer. Sono stato da sempre uno “smanettone”, imparando presto a realizzare grafiche e montaggi video in completa autonomia». 

Quel bambino era Federico Mauro, oggi cofondatore e direttore creativo di Vertigo – Cinema Creative Agency con sede a Roma, ideatore e realizzatore di contenuti per la comunicazione di film, serie e brand cinematografici di successo. Qualche esempio? Lo chiamavano Jeeg Robot, Il traditore, Call me by your name, L’amica geniale. Se il trailer, il poster o la campagna social di questi titoli vi ha invogliato a comprare il biglietto per la sala oppure a sintonizzare la tv sul canale dedicato, sapete di chi è il merito. 

«Con la Vertigo siamo un’anomalia nel panorama nazionale. Attualmente, in Italia, non c’è nessuna agenzia che si occupa di tutte le fasi delle attività di un film. C’è chi fa i poster, chi i trailer, chi digital PR e social media managing, e poi ci sono i centri media. Noi siamo la sola realtà che opera a 360°».

Il problema delle nuove professioni è spiegarle alle generazioni precedenti. In parole povere: che cosa fa un direttore creativo?

Prendo in prestito una metafora di Steve Jobs: il direttore creativo è un po’ come il direttore d’orchestra. Dirige, coordina ed è il responsabile delle attività creative di agenzia. È un lavoro di “regia” di tutti i collaboratori, quindi qualsiasi tipo di contenuto venga elaborato è realizzato da un team, ma coordinato, indirizzato, supervisionato e – molto spesso – direttamente creato, da me. 

Qual è stato il suo percorso prima di giungere a questo traguardo? 

Devo tutto alla mia cultura di spettatore, alla voglia di imparare e seguire sempre stimoli nuovi. Ho appreso moltissimo grazie a ore ed ore di tutorial online e mi sono lanciato appena si sono create le giuste occasioni. Ho frequentato la facoltà di Scienze della Comunicazione a Salerno, un’esperienza formativa fondamentale. Contemporaneamente, ho iniziato a lavorare da freelance – professionalizzandomi sempre di più – come grafico, web designer, operatore e montatore. Mi sono occupato del sito di Alex Britti, ho avuto un’esperienza molto bella nell’agenzia IoMedia e – avendo anche vinto il titolo di Miglior Web Designer agli Italian Web Awards 2011 – mi sono proposto come professionista in diversi progetti, ma in Irpinia opportunità più grandi continuavano a latitare. La comunicazione istituzionale la curavano sempre e solo le stesse agenzie, “amiche di”. I privati si affidavano al “cugino” bravo oppure preferivano strapagare agenzie di Milano piuttosto che investire sulle risorse del territorio. 

Quando è arrivata la svolta?

Ho deciso di sfruttare le mie conoscenze tecnologiche per entrare nel mondo della comunicazione cinematografica. Così sono entrato in contatto con Ferzan Özpetek, che stava lavorando al film Le fate ignoranti, per curare la comunicazione online dei suoi lavori, cosa che all’epoca, in Italia, non si faceva. Quando poi è stato lanciato Mine Vaganti, Özpetek si è accostato alla Fandango di Domenico Procacci, e io con lui. Un sogno per chiunque si occupasse di cinema, una vera e propria factory polivalente. Sono stato assunto nella divisione marketing per occuparmi della comunicazione social, e così mi sono trasferito a Roma. Un giorno, c’erano problemi con il poster per il film La passione di Carlo Mazzacurati. Procacci aveva valutato diverse opzioni ma nessuna lo convinceva. Senza alcuna pretesa di essere preso sul serio, chiedo di poter fare una prova e mi viene detto “Ok, hai tre ore”. Senza sapere che fosse la mia proposta, Procacci la sceglie e, quando ne svelo la paternità, ha un’intuizione: gestire internamente la comunicazione dei film, così sono diventato art director in Fandango. 

Qual è stata la novità nel settore apportata da quella decisione? 

Non limitarsi ad una promozione “classica”, ma costruire vere e proprie campagne. Non fare più un singolo poster, ma 3 o 4. Non più un trailer, ma anche i teaser, sfruttando la viralizzazione social non ancora schiava dell’algoritmo e delle sponsorizzazioni. C’è stata la fortuna di lavorare ai film dei nomi giusti, molto popolari, come Qualunquemente di Antonio Albanese, ma anche la lungimiranza di investire sulle novità, come Smetto quando voglio, opera prima di Sydney Sibilia. Con il nostro lavoro, per la prima volta in Italia si iniziò a parlare anche del valore della campagna di comunicazione digitale che li aveva promossi. Sono rimasto in Fandango quasi 9 anni, fino a quando la voglia di crescere non ha preso il sopravvento e insieme a Marco De Micheli, CEO del centro media Demba Group, abbiamo fondato Vertigo. 

Come nasce una campagna di comunicazione per un film?

Dipende da quello che ci viene richiesto oppure proprio dal tipo di film, da quello che c’è da raccontare. C’è chi ci sottopone il film una volta finito e ci chiede di realizzare tutto a posteriori, ma per i progetti più importanti riceviamo le sceneggiature, andiamo sul set, siamo presenti in tutte le fasi per creare contenuti ad hoc. Vale anche per i tempi. Possiamo lavorare ad un film tre mesi ma, per prodotti come Freaks Out, il nuovo film di Gabriele Mainetti, siamo stati impegnati da quasi 3 anni.

Quanto ha impattato la pandemia sul suo lavoro? Vertigo si è anche occupata della campagna ministeriale per il ritorno al cinema…

La “fortuna” di chi fa il mio mestiere è stata che in questo momento storico le piattaforme e il digitale ci hanno permesso di continuare a lavorare. Detto questo, il cinema è stato il grande assente del 2020, ed era doveroso ricordare la cosa al grande pubblico. Quando ci è stato chiesto di declinare una mini-campagna che ribadisse quanto la sala faccia parte della nostra vita, dopo i primi due spot abbiamo pensato ad un vero e proprio cortometraggio che, dando visibilità al cinema italiano, si facesse portatore di un messaggio a me molto caro, quello da cui sono partito anche io: siamo tutti spettatori. Anche gli attori, i registi, gli sceneggiatori, vivono lo stesso sogno, condividono le stesse emozioni, in sala. 

Da spettatore ed esperto, cosa ne pensa della polemica che mette contro le sale e le piattaforme? 

La mia generazione, da giovane, era schiava della programmazione televisiva, delle pochissime sale cinematografiche presenti, delle disponibilità delle videoteche. Recuperare un vecchio film, o vederne uno nuovo ma poco diffuso, era complicato e costoso. Le piattaforme, in questo, sono uno strumento prezioso e non possono sostituirsi all’esperienza del cinema, come non sono riuscite a farlo le Vhs o i dvd. La fruizione cinematografica in sala, per il tipo di esperienza totalizzante e “magica” che offre, resta insostituibile. D’altro canto, le piattaforme dovrebbero “rischiare” di più, offrire maggiori contenuti di qualità e meno basati sui trend dei gusti del pubblico. Gli spettatori vanno educati e provocati. Se Netflix si mette a produrre Sorrentino o Cuaròn, un po’ la volontà c’è. Ma, se per La Casa di Carta o Squid Game si grida al capolavoro, è perché molto pubblico non riesce a codificare che certe soluzioni visive erano presenti al cinema già 20 anni fa, con Old Boy o Battle Royal. Il lato positivo? Attraverso quei prodotti, una fetta di spettatori potrebbe voler recuperare queste visioni, grazie alle piattaforme più accessibili. Più che continuare a mettere le piattaforme e le sale le une contro le altre, bisognerebbe pensare a delle politiche culturali che rendano la fruizione al cinema più sostenibile ed economica. Andare a vedere un film in sala, per una famiglia di 4 persone, può essere piuttosto costoso, e a mio avviso dovrebbe esistere un modello di consumo più accessibile, incentivato. 

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